In attesa di conoscerne tutti gli elementi, un aspetto è incontestabile: l’accordo sui dazi tra Stati Uniti e Unione Europea infligge un colpo durissimo all’autonomia strategica del Vecchio Continente.
Non è solo la questione dei dazi al 15%: è la somma di concessioni e cedimenti che segnano un arretramento del progetto europeo proprio mentre la competizione globale richiederebbe più unità e più peso politico.
L’immagine che resterà impressa è quella di un’intesa siglata non in una sede istituzionale, ma nel resort privato di Donald Trump in Scozia. Una scelta che a quei livelli non è mai casuale. Ursula von der Leyen è andata letteralmente “a casa di Trump” per chiudere l’intesa. La forma, a quei livelli, è sostanza.
A rendere ancora più pesante il pacchetto sono gli impegni collaterali: centinaia di miliardi di dollari in petrolio, gas liquefatto statunitense e un nuovo flusso di acquisti di armamenti made in USA. Dal mio punto di vista entrambe le cose sono necessarie ma incredibilmente, un colpo solo, l’Europa lega la propria politica energetica e di difesa a decisioni prese dall’altra parte dell’Atlantico.
Sul fronte energetico, significa prendere impegni a lunga gittata per rinnovare la dipendenza da fonti fossili, con buona pace delle esigenze verso la transizione ecologica e l’autonomia energetica europea.
Sul fronte militare, il quadro è ancora più netto. Trump ha avuto gioco facile dopo che i Paesi NATO europei si sono impegnati a portare al 5% del PIL la spesa per la difesa, nel far abdicare gli europei all’idea della difesa comune dell’Unione, a sostegno e complemento della costruzione del pilastro europeo della NATO.
Una difesa comune europea permetterebbe di razionalizzare la spesa militare, rendendola più efficiente ed efficace, e al tempo stesso darebbe all’Unione Europea la forza politica e strategica per agire come attore globale, capace di mediare nei conflitti internazionali e di promuovere i valori della democrazia, dei diritti umani e dello Stato di diritto che definiscono l’identità europea.
Una responsabilità, non da poco, ce l’ha Mark Rutte. Da segretario generale della NATO si è mosso come garante dei desiderata del nuovo presidente americano, più che come promotore di una vera riforma dell’Alleanza. La von der Leyen ha sicuramente pagato il fatto di dover portare avanti un negoziato dovendo tenere conto degli equilibri interni all’Unione. Ma ciò non la esenta dalle sue responsabilità, che ci sono e sono tante. Perché ha immediatamente rinunciato a portare sul tavolo negoziale i controdazi? Perché non ha usato leve evidenti, come il contesto di vantaggio, per non dire di privilegio assurdo, delle Big Tech americane in Europa? È su quel terreno che l’UE avrebbe potuto far valere la sua forza: la regolamentazione digitale, la web tax, il tema della privacy, l’impatto devastante di Google, Amazon e Meta su nostri interi settori economici, sul modo in cui hanno tratto stratosferici profitti alterando gli equilibri di interi comparti, dal commercio al mondo dell’informazione, con il profitto economico su contenuti prodotti da altri.
È stata una trattativa tutta in difesa, senza una sola iniziativa che mostrasse capacità di contrattazione.
E come sempre, una concessione porta alla successiva. Washington/Trump ha già messo sul tavolo nuove richieste: alleggerire i vincoli europei su privacy e fake news, considerati ostacoli al commercio digitale, aprire il mercato a prodotti agroalimentari americani che oggi non rispettano gli standard UE sulla sicurezza alimentare (ogm, ormoni, pesticidi ecc.)
Semplificazione delle procedure, la chiamano. In realtà è il tentativo di scassinare l’impianto regolatorio europeo che tutela salute, sicurezza e diritti dei cittadini.
Bruxelles rassicura che sugli standard non ci sarà nessuna deroga. Ma è chiaro che il pressing USA continuerà, forte della lezione imparata: questa Europa divisa cede per evitare conflitti. È un precedente tossico.
Qualcuno sostiene che sarebbe potuta andare molto peggio, che un brutto accordo è meglio di una guerra commerciale. È una lettura, consolatoria e di comodo, che non tiene conto di questi elementi.
La narrativa dell’“autonomia strategica” europea è da anni il mantra dei vertici UE. Ma questo accordo ne è la smentita plastica. Non serve retorica per dirlo: basta guardare la scena di un continente che va a firmare dazi e dipendenze nella casa privata di Trump. Lì, in quella foto, c’è l’Europa di oggi: prudente, frammentata, incapace di far valere la propria forza.
Il prezzo? Sarà molto più alto del 15% di tariffa. È la perdita, pezzo dopo pezzo, della capacità di decidere per sé. E questa, per un’Unione che voleva diventare polo globale, non è una ferita: è una diagnosi.