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La responsabilità europea: Andare in Afghanistan era giusto, ora serve una strategia per tutelare i diritti - dice Piero Fassino a Linkiesta

20 Agosto 2021



Il presidente della commissione esteri della Camera non rinnega l’intervento di venti anni fa e spera che quanto accaduto possa spingere l’Europa a essere più presente nelle crisi internazionali. Magari cominciando a discutere seriamente di interesse strategico comune per proteggere gli spazi di libertà conquistati nel mondo

Piero Fassino, deputato del Partito democratico e presidente della Commissione esteri della Camera dei deputati, ha una lunga esperienza di crisi internazionali. Sottosegretario agli Esteri e poi ministro del Commercio estero durante la guerra in Kosovo, è stato poi inviato speciale dell’Unione europea in Birmania nel 2007. 

In questi giorni sta lavorando a stretto contatto con il governo per cercare di portare in Italia i collaboratori della nostra missione in Afghanistan, e ragiona con Linkiesta sulle conseguenze del ritiro americano.

Onorevole, parte della sinistra italiana si è concentrata in questi giorni su una sorta di “peccato originale” dell’intervento occidentale in Afghanistan, giudicato come un errore evitabile. Che ne pensa?
L’esito catastrofico che abbiamo visto questa settimana ha effettivamente dato argomenti a questa visione, che io non condivido, perché appoggiai allora l’intervento e ritengo sia stato giusto anche col senno di poi. Mi colpisce che adesso si moltiplichino gli appelli per salvare le donne afghane: se dobbiamo salvarle è perché negli ultimi venti anni avevamo contribuito a renderle più libere, e quindi vuol dire che la nostra presenza in Afghanistan non è stata così inutile. La democrazia è un sistema complesso, e forse è esagerato dire che avevamo raggiunto questo risultato in Afghanistan, ma gli spazi di libertà e diritti fondamentali li abbiamo garantiti. Se li consideriamo ancora valori assoluti e imprescindibili, e io li considero tali, allora qualcosa da salvare c’è. Certo è, e dobbiamo dirlo in modo chiaro, sono stati commessi gravi errori nella gestione di questi vent’anni.

A cosa si riferisce in particolare?
L’obiettivo principale dell’intervento era sconfiggere terrorismo, eliminando Osama bin Laden e Al Qaeda. Una volta raggiunto questo obiettivo, era quello il momento per aprire le trattative e negoziare da una posizione di forza. È stata scelta un’altra strada, cioè rimanere con obiettivi vaghi, e si è giunti infine a un negoziato tardivo e parziale come quello organizzato a Doha. Dico parziale perché è stato un tavolo bilaterale tra Stati Uniti e Talebani che ha tenuto tutti gli altri fuori, gli alleati Nato e le altre realtà afghane. Così facendo il governo di Kabul è stato delegittimato completamente, ed è uno dei motivi per cui è caduto così in fretta.

Avevamo un modello da seguire per evitare il disastro o forse era inevitabile che le cose precipitassero in questo modo, nel momento in cui si è deciso di abbandonare il paese?
Una strada diversa c’era, sì.  Come ho già detto l’attivazione di un negoziato andava fatta molto prima, dopo l’uccisione di Bin Laden e la sconfitta di Al Qaeda, quando ancora non si era consolidata e radicata la forza armata talebana. E nel negoziato si dovevano coinvolgere tutte le parti afghane con l’obiettivo di giungere a un governo di unità nazionale, sostenerlo con un robusto piano di aiuti economici e sociali e ridurre la presenza militare non in qualche settimana, ma gradualmente e progressivamente in relazione al consolidarsi del nuovo governo. È la strada che abbiamo seguito nei Balcani, dove subito dopo gli accordi di Dayton la Nato mandò 60mila uomini per garantire il rispetto degli accordi di pace e accompagnare un processo di pacificazione e stabilizzazione. E via via che quel processo si è consolidato, si è ridotta progressivamente la presenza militare, che oggi è dimensionata ad alcune migliaia di uomini, tra cui il contingente italiano in Kosovo. In Afghanistan si è scelto invece di abbandonare il campo e di consegnare il paese ai talebani attraverso un accordo senza condizioni e garanzie: per questo dico che ciò che è accaduto in queste settimane non era inevitabile. È l’esito di una strada sbagliata imboccata in modo deliberato.

È la vittoria del fondamentalismo islamico, che non siamo riusciti a eliminare?
È una battaglia persa in una guerra tuttora aperta che ha visto il fondamentalismo islamico sconfitto più volte. Al Qaeda e lo Stato islamico dell’Isis sono stati battuti. Certo è un lotta che non è conclusa e oggi ci impegna nel Sahel, in Somalia e in altre aree dell’Africa dove il jihadismo tenta di ricostruire i suoi santuari. È una lotta che ci impegnerà a lungo, ma sarebbe un errore esiziale non combatterla.

Come ci comportiamo con i paesi che stanno vivendo transizioni verso la democrazia, come la Bielorussia, gli Stati balcanici, la Tunisia, che hanno bisogno del nostro aiuto per evitare di tornare indietro?
Bisogna essere più presenti, non soltanto come Italia, ma come Unione europea, cercare di tessere relazioni con le società civili di questi paesi, con tutte le forze politiche in campo, essendo facilitatori di dialogo e soluzioni politiche, fermi sul rispetto dei diritti e allo stesso tempo aperti a un “dialogo critico”. Vede, il rispetto dei diritti umani e delle libertà civili per noi è irrinunciabile. Ma dobbiamo chiederci quali siano gli strumenti più efficaci. Nelle situazioni più critiche siamo ricorsi, come in Afghanistan, all’intervento militare: uno strumento tuttavia che con il passar del tempo si logora. Le opinioni pubbliche dei Paesi che inviano soldati si chiedono perché i loro figli debbano morire per cause lontane e nei Paesi che sono oggetto di intervento vi è il rifiuto di una presenza che viene percepita come espropriatrice di sovranità e identità. In situazioni di violazione di diritti – come in Bielorussia – ricorriamo alle sanzioni, che tuttavia sono adottate e applicate solo dall’occidente, facilmente aggirabili in un mondo di mercati aperti. E in altri casi ci affidiamo alla moral suasion la cui efficacia è però condizionata dalla disponibilità del destinatario. Insomma: abbiamo bisogno di ridefinire gli strumenti della lotta per la globalizzazione dei diritti. E gli strumenti impositivi da soli non bastano. La forza è uno strumento della politica, ma non sostituisce la politica. E perciò insieme alla forza serve una paziente capacità di interlocuzione, di dialogo, di negoziato, di ricerca di soluzioni condivise. Ci vogliono bastone e carota.

L’Italia ha la capacità di capire che la fase storica è cambiata e gli Stati Uniti non sono più interessati a farci da guida morale o da protettore?
Credo sia riduttivo ragionare soltanto sull’Italia, ma bisogna cominciare a estendere il dibattito a tutta l’Unione europea. In Libia, dopo 11 anni di guerra e milizie armate, si è avviato un processo di pacificazione e stabilizzazione quando Italia, Francia e Germania – mettendo da parte le loro divisioni – si sono finalmente messe d’accordo sulla strada da intraprendere. È sbagliata l’dea – cara ai sovranisti – che la politica estera può esistere soltanto dentro il quadro della sovranità nazionale. Non è vero, una politica estera comune, se perseguita davvero, consentirebbe all’Unione europea ben più forti possibilità di incidere e pesare nella vita del mondo. L’Europa come potenza commerciale funziona, non funziona come potenza geopolitica: è scritto sulle tavole della legge che debba ancora andare così o si può cambiare?  Il Covid 19 non ci ha forse dimostrato che per uscirne abbiamo bisogno di politiche e strumenti comuni? E la stessa lezione non viene dalla lotta al climate change? E le migrazioni non ci pongono di fronte allo stesso tema? Ciascuno di quelle questioni ci dice che solo con una volontà politica determinata a unire le forze si fanno passi in avanti inaspettati. 

Pensa resti nei nostri interessi parteciparee  ad azioni militari in teatri molto lontani dove gli Stati Uniti sono impegnati, come il sud est asiatico? Oppure dovremmo occuparci prima della grave situazione di sicurezza nel Mediterraneo e nel Sahel?
Lo ripeto, questo tipo di decisioni non devono essere prese solo a Roma, ma a livello europeo. Le “guerre locali” non esistono più, tanto che questa espressione è ormai sparita dal lessico politico; viviamo in un mondo globalizzato e questo non vale soltanto per le merci, e il terrorismo internazionale è lì a dimostrarlo. Questo è vero tanto per i teatri lontani che ha appena citato, quanto per il Mediterraneo: la stabilità del mare nostrum non è un interesse solo dei paesi che si affacciano al mare. Se quest’area piomba nell’instabilità le conseguenze investono tutto il continente europeo, nord Europa compresa. Dobbiamo essere consapevoli che la sicurezza ha sempre più dimensione globale. Anche le cyberwar ce lo dimostrano. E allora servono strategie e azioni che abbiano un incisività globale. Ed è una responsabilità a cui nessun Paese può sottrarsi. Tanto meno l’Europa se vuole avere stabilità e pace per sé e per il mondo. La grande lezione dell’Afghanistan è che nessuno può chiudersi in casa e far finta che il mondo non gli interessi.



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