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Il G20 di Venezia e le scelte su fisco e ambiente - di Pier Paolo Baretta su R&S

14 Luglio 2021

La conclusione del G20, tenutosi a Venezia nei giorni scorsi, ha confermato le attese per quanto riguarda la scelte fiscali; più problematica è apparsa, invece, la sessione sul clima. Qualche settimana fa, nella riunione preparatoria di Londra, era stato prospettato l’orientamento di definire una tassazione minima globale da applicare alle grandi compagnie multinazionali, a partire da quelle che possiedono e gestiscono le grandi piattaforme di erogazione di servizi immateriali. La possibilità che a Venezia si potesse decidere in tal senso era stata definita “storica”; e tale è, se pensiamo che la imposizione fiscale è, da sempre, una prerogativa assoluta degli Stati nazionali. Senza tasse non c’è cittadinanza, viene detto, e la cittadinanza è ancora la “Costituens” degli Stati. Ma vale anche il contrario: senza cittadinanza non ci sono tasse. E infatti è quel che succede con le multinazionali.

La globalizzazione del capitalismo produttivo e finanziario ha ben dimostrato tutto ciò. Le dinamiche del rapporto tra il cittadino e il mercato e tra lo Stato e il mercato sono così clamorosamente cambiate che hanno modificato, in buona parte, la stessa natura della cittadinanza. Ad esempio: sentirsi cittadini europei non è solo uno stato d’animo o una posizione politica… è una condizione concreta che si misura con la libertà di movimento personale (che cosa ha significato Schengen lo abbiamo ben misurato quando ne siamo stati privati, nella pandemia), con una moneta unica, con un Parlamento eletto direttamente dai cittadini europei. Anche se ancora su base nazionale, a dimostrazione di quanto sia radicata la concezione nazionalista… Peraltro la Nazione è depositaria e portatrice di storia, di identità collettive, di culture e valori che vanno valorizzati e condivisi… (come nel caso, buon per noi, degli Europei di calcio, appena conclusi… ). Solo un coraggioso equilibrio tra una nuova identità globale e la realizzazione di solide e autorevoli istituzioni legittimate dall’insieme dei popoli garantirà una giusta e pacifica evoluzione del mondo contemporaneo, così complesso, ricco, come non mai prima, di opportunità; ma così fragile. Integrazione e specificità vanno insieme. La nuova identità globale, per noi anche europea, non solo è auspicabile, ma è ormai necessaria, da perseguire con la condivisione di valori comuni. La legittimazione delle istituzioni anche da parte delle identità nazionali o addirittura locali, comporta però che queste siano disposte a cedere poteri legislativi ed esecutivi a favore di una governance sempre più planetaria. Come dimostra la gestione dei debiti sovrani (e, per converso, le risorse del recovery!) senza una convinta condivisione sovranazionale le scelte economiche e fiscali si rivelano inefficaci. Una tassa nazionale è efficace se applicata a soggetti che rispondono fiscalmente allo Stato che la emette; non a soggetti che, pur operando in quel determinato mercato, non ne condividono la appartenenza.

E questo è proprio il caso della tassa in questione. La storia di questa tassa è ormai lunga. Anni di controversie, a cominciare da quelle sulla web tax italiana, più volte decisa e non applicata, poi avviata in forma ridotta, ma sempre in contrasto con le indecisioni europee, la concorrenza dei paradisi fiscali, gli interessi americani; quando non apertamente in conflitto, come con l’amministrazione Trump. Questo non vale solo per i giganti del web, vale in generale per la tassazione d’impresa. Ma Google, Facebook, Microsoft sono gli esempi più clamorosiIn un precedente articolo pubblicato sempre su ReS in occasione dell’incontro di Londra, avevo elencato le ragioni che hanno portato i “grandi” ad operare questa svolta, per l’appunto “storica”: la pandemia da un lato e il cambiamento di linea americana con la presidenza Biden dall’altro. E’ questa mutata politica americana che ha fatto sì che la signora Jennet Yellen, segretaria al Tesoro Usa, abbia avallato la scelta di imporre una tassa minima del 15%; anche se, a tutela degli interessi americani, ha chiesto a tutti (e già ottenuto dall’Europa) di rinunciare alle tasse locali sullo stesso argomento. In ogni caso, questa nuova posizione americana va appieno utilizzata per avviare una riflessione più generale sulla fiscalità globale che oggi è nata. Ma non solo su questo, bensì sulla complessa agenda che caratterizza la governance mondiale.

La strada è ancora lunga. Lo si è visto a Venezia nella importante sessione conclusiva sul clima, fortemente voluta dalla Presidenza italiana. La discussione, su questo, punto si è limitata – anche se non è poco, visti i precedenti degli anni scorsi – a generiche affermazioni di impegno. E’ stato il nostro ministro Daniele Franco a esprimere con chiarezza lo stato dell’arte, dichiarando quanto sia necessario agire a favore di una visione sostenibile e quanto questo questa debba riguardare la produzione. Il contributo che il sistema industriale può dare alla difesa del clima è decisivo. E anche in questo caso la scelta di Biden di ritornare al tavolo della sostenibilità ambientale è di grande importanza. A Venezia, dunque, si sono presi impegni sul clima e si è confermata la linea di riduzione drastica delle emissioni; si è senza dubbio fatto un passo in avanti nella sensibilità collettiva, ma non si sono presi provvedimenti specifici. Eppure l’intreccio tra la difesa del clima e la fiscalità è stretto, proprio sul piano industriale, che è considerato la cartina di tornasole della capacità di ripensare l’ambiente. Molti paesi, tra cui l’Italia, agevolano fiscalmente produzioni ambientalmente dannose. Si pensi solo alle agevolazioni agli autotrasportatori per il gasolio. Riconvertire tali susssidi verso produzioni green (elettrico, idrogeno) è una scelta concreta che va rapidamente adottata. All’esterno delle super protette sale del summit si sono svolte alcune manifestazioni. A parte alcuni incidenti che vanno condannati, ed alcuni radicalismi, il senso di queste proteste è apparso più uno stimolo a fare di più e meglio, che una negazione dell’agenda. Infatti, diversamente dal passato, sia nelle sale ovattate della conferenza che nelle strade le priorità erano le stesse. E’ una novità di grande interesse. Chissà che il futuro non veda una dialettica tra le istituzioni e i movimenti che, pur nelle ovvie differenze, sia di stimolo reciproco a recuperare il tempo perduto.

Nelle stesse ore del G20 è stata varata la “Fondazione per Venezia capitale mondiale della sostenibilità”. Una operazione nata dalla sensibilità di Marco Alverà, amministratore delegato di Snam e immediatamente condivisa dalle istituzioni politiche, culturali e imprenditoriali locali e patrocinata dal Governo. Quando, ancora un anno fa, fu scelta Venezia come sede del G20 dal Presidente del Consiglio Conte, assieme al ministero dell’Economia e alla Banca d’Italia, non è stato solo per la splendida location, ma soprattutto perché Venezia è per sua natura una città resiliente e ambientalmente importante, per la straordinaria complessità dei suoi problemi, esposta com’è, più di altre, alle conseguenze dei cambiamenti climatici e all’innalzamento dei mari. Al tempo stesso, come dimostra la sua storia, è una città capace di reagire, di cambiare, di riprogettarsi.

Oggi viviamo un momento storico difficile e la urgenza di una visione e di una progettualità capace di ripensare il futuro è la priorità globale. Venezia è una testimone privilegiata di tale condizione e può diventare un prezioso laboratorio al servizio del pianeta. Salvare Venezia e renderla viva, abitata e operosa è il miglior “vaccino” ambientale che possiamo realizzare. L’insieme di questi motivi: le decisioni prese sul piano fiscale; gli impegni assunti su quello ambientale, anche se ci si poteva aspettare di più; la condivisione generalizzata dell’agenda, fa sì che queste veneziane siano state delle buone giornate. Per essere il primo grande appuntamento mondiale del dopo pandemia c’è da essere soddisfatti.


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