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L'eterno conflitto fra due diritti entrambi legittimi - intervento di Piero Fassino su Il Tirreno

15 Maggio 2021


In queste ore il mondo intero invoca con angoscia che in Medio Oriente si spezzi la spirale di violenza che sta causando vittime innocenti tra le popolazioni israeliana e palestinese. È la priorità assoluta a cui si sta dedicando la diplomazia internazionale, a lungo colpevolmente distratta.

Ma quali origini ha questa ennesima crisi israelo-palestinese? È assai diffusa una rappresentazione che contrappone un popolo oppresso, i palestinesi, e un oppressore, lsraele. La realtà è assai più complessa. In quella terra non sono in conflitto un torto e una ragione, ma due diritti ugualmente legittimi: il diritto di Israele a vivere, sicuro e riconosciuto dai suoi vicini; il diritto del popolo palestinese ad avere una propria patria. Dal 1948 - quando gli Stati arabi rifiutarono la decisione dell’Onu di spartire la Palestina in due Stati - fino alla fine degli anni ’80 il riconoscimento della coesistenza di due diritti è stata reciprocamente negata, scandita da cinque guerre (’48, ’56, ’67, ’73, ’82) che hanno esteso il controllo israeliano anche su Cisgiordania, Gaza e Sinai. Le cose sono cambiate a partire dal 1991 quando, con la Conferenza Internazionale di Madrid, israeliani e palestinesi, su forte pressione internazionale, si sono seduti allo stesso tavolo e ciascuno ha riconosciuto che il diritto dell’altro è legittimo come il proprio. Di li è iniziato un percorso che nell’arco di due anni avrebbe portato agli accordi di Oslo, sottoscritti a Washington da Arafat e Rabin con la garanzia di Clinton. Un accordo fondato sul principio "Due popoli, Due Stati".

Tuttavia quell’accordo è stato via via logorato da due fatti. In primo luogo da una applicazione per fasi successive, al termine delle quali avrebbe dovuto nascere lo Stato palestinese sui territori della Cisgiordania. In realtà l’attuazione per fasi è stata rallentata da continui stop and go che hanno alimentato contenziosi, conflitti e sfiducia. Ma soprattutto il percorso di pace è stato minato dai settori radicali ebraici e palestinesi che non hanno mai accettato la legittimità di due diritti. Le sette religiose ebraiche, i coloni e la destra israeliana non hanno mai riconosciuto gli Accordi di Oslo. E lo stesso Netanyahu ha ostacolato in ogni modo - in particolare autorizzando continui illegittimi insediamenti ebraici sui Territori palestinesi e perseguendo la giudeizzazione di Gerusalemme - che si giungesse alla creazione di uno Stato Palestinese.

Specularmente nel campo palestinese il radicalismo estremista di Hamas e Jihad si è rifiutato di riconoscere l’esistenza stessa di Israele, ricorrendo per anni ad atti terroristici e poi facendo di Gaza - unilateralmente lasciato dagli israeliani - la base per una vera e propria azione militare contro Israele. L’affermarsi nei due campi delle posizioni radicali ed estremiste ha così approfondito sempre di più reciproca sfiducia tra israeliani e palestinesi, sospingendo gli orientamenti delle reciproche opinioni pubbliche su posizioni di chiusura e mettendo in una condizione di minorità i partiti israeliani che vogliono la pace e Abu Mazen e la dirigenza palestinese moderata.

Ne sono dimostrazione gli esiti elettorali in Israele, che da vent’anni vedono una maggioranza di consensi al Likud e ai parti religiosi e conservatori. Così come nel campo palestinese sono venuti aumentando i consensi ad Hamas e alla Jihad, al punto che Abu Mazen temendone la vittoria - e le devastanti conseguenze politiche che ne deriverebbero - ha più volte rinviato le elezioni presidenziali e parlamentari, comprese quelle originariamente indette per le prossime settimane. È questo il contesto in cui sono maturati i fatti di queste settimane, innescati dalla difficile fase post elettorale israeliana. Le elezioni infatti non hanno risolto la precarietà politica che ha portato Israele al voto per quattro volte in due anni. Nethanyahu e il Likud si sono confermati maggioranza relativa, senza però riuscire a dar vita ad una maggioranza di governo. Peraltro una coalizione alternativa - che in ogni caso sarebbe molto eterogenea tenendo insieme sinistra, centro e partiti religiosi - non raggiunge una maggioranza alla Knesset.

Decisivo sarebbe l’apporto di uno dei due raggruppamenti parlamentari arabi con cui sia Nethanyahu sia lo schieramento avverso hanno intavolato colloqui riscontrando disponibilità. È stata un’ulteriore ragione per la mobilitazione dei radicali che nei due campi vedono come fumo negli occhi un governo israeliano di cui facciano parte rappresentanti arabi. I religiosi ortodossi e i coloni si sono mobilitati invadendo le strade di Gerusalemme est con manifestazioni di violenta ostilità verso la popolazione araba. Hamas a Jihad - utilizzando le festività di fine Ramadan - hanno organizzato un afflusso straordinario di arabi a Gerusalemme, promuovendo violenze antiebraiche. Si è così innescata una massima tensione con violenti scontri nell’area che comprende la Moschea di Al Aqsa e il Muro del pianto. Scontri che Hamas e Jihad hanno deciso di radicalizzare con il lancio di centinaia di razzi sulla popolazione inerme di Gerusalemme, Tel Aviv, Askelon e altri centri israeliani. Aggressione a cui Israele ha reagito con intensi bombardamenti mirati su strutture militari palestinesi e su uffici e abitazioni di esponenti di Hamas e della Jihad.

Che fare dunque per spezzare la spirale di una devastante conflittualita infinita?

Il punto ineludibile da cui ripartire non può che essere il riconoscimento inequivoco della esistenza di due legittimi diritti che richiedono di essere soddisfatti entrambi. Non può essere concesso nessun spazio o alibi a chi - come Hamas e Jihad - vorrebbe cancellare Israele, né a chi in campo ebraico nega l’aspirazione palestinese ad una patria. E occorre che le leadership israeliana e palestinese compiano atti chiari e irreversibili in questa direzione: la dirigenza palestinese ricusi nettamente ogni strategia di negazione di Israele; e il governo israeliano fermi ulteriori insediamenti illegali in Cisgiordania e le forzate espulsioni di popolazione araba dalle proprie abitazioni.

Poiché tuttavia anni di guerre e conflitti hanno scavato un solco di rancore e sfiducia, ciò non avverrà senza una forte azione persuasiva della comunità internazionale. Su questo deve concentrarsi l’impegno delle Nazioni Unite, di Russia e Stati Uniti, dell’Unione Europea e dei suoi Paesi - a partire dall’Italia - e delle nazioni della regione.

Ma c’è anche una responsabilità delle opinioni pubbliche, delle società civili, di organizzazioni politiche e sociali di ogni nazione, la cui sensibilità deve essere indirizzata a contrastare ogni forma di contrapposizione, a favore invece del dialogo e del riconoscimento tra le parti. Anche in questo conflitto la soluzione può essere solo politica e frutto di un negoziato. E il negoziato richiede reciproco riconoscimento e fiducia. Tertium non datur. --

*presidente della commissione Affari esteri della Camera dei deputati


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