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Enrico Letta: serve un grande patto per superare la crisi. Come fece Ciampi nel ‘93 - intervento sul Corriere della Sera

22 Aprile 2021

La parola «riaperture» è la più abusata in questi giorni. Riaperture in sicurezza e irreversibili, meglio specificare, considerata la situazione sanitaria ancora precaria e le tensioni conflagrate ieri in Consiglio dei ministri intorno al coprifuoco, col dietrofront poco serio della Lega. Tuttavia, oltre (e in parallelo) alle riaperture, è tempo di mettere al centro del dibattito pubblico, e delle decisioni della politica, anche la parola “ricostruzione”. Dopo i quattordici mesi che abbiamo alla spalle, dopo il dolore e le vittime, dopo le perdite economiche e la paura di non farcela, non bastano più sostegni o ristori.

Certamente, il Decreto imprese, lavoro e professioni che abbiamo chiesto al governo, dopo aver incontrato rappresentanti di imprese e lavoratori, è fondamentale nell’immediato, per dare ossigeno ad aziende e partite Iva anche su affitti, bollette e altri costi fissi. Queste misure sono una pre-condizione necessaria. Non è, però, più sufficiente solo aggiustare, tamponare, ristorare. Si tratta ora di cominciare a scrivere, condividere e rendere operativo sui territori un grande Patto per la ricostruzione del Paese. Il modello per noi è quello dell’accordo voluto da Ciampi nel luglio ‘93. Segnò una svolta nella storia economica del Paese, con imprese e lavoratori protagonisti della ripresa. Il parallelismo è forte, me ne rendo conto. Il patto di Ciampi spianò la strada al superamento della crisi strutturale del ‘92-93. Quella di oggi, di crisi, è diversa, più drammatica e pervasiva nel suo impatto sul nostro stesso sistema di vita e di relazioni, sul modo di produrre, lavorare, consumare. Uscirne, oggi come allora, sarà dura, ma a differenza del passato avremo dalla nostra la possibilità di sfruttare risorse considerevoli, benché molte a debito. Risorse mai così ingenti dal secondo dopoguerra a questa parte. C’è lo spirito giusto per vivere questo passaggio d’epoca superando i particolarismi e rimboccandoci tutti le maniche per l’interesse generale? Ci sono segnali contrastanti, ma io mi auguro ancora di sì.

Soprattutto la Lega di Salvini deve decidere una volta per tutte se sta al governo o se sta all’opposizione: stare in entrambi è impossibile, evidentemente. La verità è che solo una tregua sulla ricostruzione tra le forze politiche che collaborano nel sostegno a Draghi può consentirci di vivere una nuova stagione di concertazione. Concertazione che oggi, però, deve essere qualcosa di più: deve essere condivisione e corresponsabilità. L’orizzonte è quello dello sviluppo sostenibile. L’obiettivo dare alle imprese e ai lavoratori gli strumenti necessari per competere nel mondo del post pandemia, come sottolineato nell’editoriale di Dario Di Vico sul Corriere del 21 aprile. Il metodo sono le riforme. Fisco, Pubblica Amministrazione, ammortizzatori sociali, politiche attive per il lavoro: senza una trasformazione anche radicale in primo luogo in questi ambiti rischiamo tutti, come sistema, di non essere semplicemente attrezzati a sfruttare la svolta di Next Generation Eu. Un Patto per la Ricostruzione - elaborato dal governo con tutte le parti sociali, con il coinvolgimento fattivo dei sistemi territoriali e con il sostegno genuino delle forze politiche - può essere l’occasione per potenziare quel che sin qui è stato insufficiente, poco chiaro, farraginoso.

Anzitutto, deve avere come obiettivo cardine la creazione di lavoro. Deve, anche, essere il modo per affrontare il blocco dei licenziamenti e le questioni del credito e della capitalizzazione, su cui pendono scadenze delicate e imminenti, con la necessità di allungare i tempi delle moratorie già previste. Contemporaneamente, il Patto deve concentrarsi su interventi selettivi per le PMI, in particolare per la patrimonializzazione e l’adeguamento alle complesse transizioni digitali ed ecologiche. Poi, come dicevo, la riforma degli ammortizzatori sociali e, finalmente, gli interventi a favore dell’occupazione giovanile e le politiche attive per il lavoro: misure sempre auspicate, spesso annunciate, mai davvero, strutturalmente, varate. Infine, con la medesima ambizione, la ridefinizione condivisa del sistema delle relazioni industriali e la riscrittura del paradigma stesso della democrazia economica, anche attraverso la partecipazione dei lavoratori agli utili e alla governance delle imprese. Vivere questa stagione delle nostre vite senza cogliere il potenziale di trasformazione che ci circonda significherebbe disperdere una occasione forse irripetibile. Occuparci davvero di territori, imprese, lavoro vuol dire parlare all’Italia. Un’Italia che, dopo tanti timori e sofferenze, nonostante tutte le incertezze, vuole guardare avanti con fiducia e speranza.


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