Se è vero, come da più parti si sostiene, che i Governi devono saper trasformare la crisi causata dal Covid in un’opportunità, imprimendo una svolta alle politiche sociali ed economiche all’insegna dell’equità, mai come in questa fase i dati ci dicono che sulla questione di genere è il momento di intervenire in maniera decisa, a partire da come gestiremo i fondi del Recovery Fund. Serve il coraggio di dire che il gender gap è un peso enorme per tutti e che dal suo azzeramento bisogna passare per dare un volto diverso a tutta l’Europa.
Anche con questa nuova ondata di Covid, a pagare di più saranno le fasce più deboli, accomunate trasversalmente da un solo fattore: le donne sono i soggetti che vengono penalizzati maggiormente, sia a causa delle misure che limitano le libertà personali, sia per la contrazione economica che viene generata come conseguenza delle misure restrittive, sia infine per l’inadeguatezza complessiva del sistema di welfare.
Nell’ultimo mese sono molti i dati che delineano una situazione non più tollerabile, basti pensare, per cominciare, all’identikit sulle nuove povertà stilato nell’ultimo rapporto Caritas: “donna, quarantenne, con due figli a carico”, ecco chi paga il maggior prezzo della crisi. L’Istat segnala invece che i padri lavoratori nella fascia di età tra i 25-64 anni sono l’83,5% della popolazione mentre le madri, nella stessa fascia, sono solo il 54,5%. Oltre a questo le donne con figli in media lavorano 11 settimane in meno all’anno rispetto agli uomini, con relativo divario di reddito e compromissione di una piena partecipazione al mondo del lavoro. Infine, tra il secondo trimestre 2019 e lo stesso periodo di quest’anno il virus si è portato via 470.000 posti di lavoro occupati da donne. E, dunque, su 100 impieghi persi (in tutto 841.000) in un anno, quelli femminili rappresentano il 55,9% del totale. E’ stato messo nero su bianco in un dossier della Fondazione studi dei consulenti del lavoro.
Pochi dati, pesantissimi, che politicamente ci portano a una sola conclusione: tutte le iniziative messe in campo dal nostro Governo e dall’Unione Europea, devono aggredire questo divario che non colpisce solo la crescita economica del Paese (tutti gli analisti concordano nel dire che il Pil aumenterebbe in maniera direttamente proporzionale rispetto a una crescita delle donne occupate), ma anche quella culturale e sociale.
L’empowerment femminile e l’equità di genere sono state inserite tra le linee guida principali per pianificare la gestione del Recovery Fund e da qui dobbiamo partire per affrontare questa crisi, destinando una parte importante dei fondi stanziati questa estate proprio alle politiche di genere. Non basta più fare proclami che restano lettera morta, dobbiamo avere il coraggio di osare, mettendo le politiche di genere al centro della nostra agenda.
Tanto per fare un esempio, tra le molteplici iniziative da mettere in campo, può essere importante incentivare l’accesso delle donne alle cosiddette lauree Stem (Scienze, tecnologia, ingegneria e matematica) con borse di studio e meccanismi di premialità per le studentesse più meritevoli. Va percorsa ogni strada per ampliare le opportunità di inserimento nel mondo del lavoro da parte delle donne. Formazione, sostegno economico, massiccio intervento sul welfare (asili, genitorialità condivisa, permessi, infrastrutture) e ovviamente una battaglia culturale che garantisca percorsi realmente paritari per le donne che si fanno strada nel mondo del lavoro a livello apicale. In tutte le istituzioni e a tutti i livelli, con qualsiasi mezzo a disposizione, deve crescere la consapevolezza che questo momento di crisi rappresenta davvero una straordinaria occasione per cambiare i nostri paradigmi sociali e culturali. Perché forse non avremo mai più cosi tanti fondi a disposizione per investire sulle politiche di genere e perché forse abbiamo già perso troppe occasioni.
Nessuno può uscire dalla crisi da solo e nessuno può uscire da nessuna crisi senza il contributo delle donne