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Federica Mogherini: vi racconto i miei 5 anni da Alto Rappresentante

22 Gennaio 2020

Federica Mogherini è stata per cinque anni Alto Rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell’Unione europea. Accetta di conversare con AffarInternazionali per tracciare un bilancio della sua esperienza.

Che fase è stata della sua vita? Quanto è stato complesso e quanto affascinante?
“È stato insieme complesso e affascinante perché sono stati cinque anni in cui il ruolo dell’Europa nel mondo è cambiato moltissimo, così come la politica estera globale. Ho avuto modo di attraversare le diverse fasi di questo cambiamento. I primi due anni, il 2015 e il 2016, sono stati un periodo in cui abbiamo costruito molti accordi internazionali nei quali l’Unione europea è stata determinante. È stato un processo di creazione dello spazio del ruolo dell’Ue nel mondo, penso agli accordi sul clima di Parigi, agli accordi sullo sviluppo sostenibile a New York alle Nazioni Unite, all’accordo sul nucleare iraniano e anche al lavoro che abbiamo fatto in sedi multilaterali, per esempio, per rilanciare il processo di pace in Medio Oriente o i tentativi portati avanti in Libia e Siria. Poi dal 2016-2017 c’è stata un’altra fase in cui l’Unione europea è diventata automaticamente indispensabile come bastione di difesa di un sistema multilaterale che era sotto attacco”.

Qual è l’obiettivo raggiunto di cui è più orgogliosa e quale il dossier più complicato, quello per cui magari ha ancora qualche rammarico?
“Sicuramente ciò che mi rende più orgogliosa è il lavoro che abbiamo fatto sulla difesa; nessuno se lo aspettava, tutti consigliavano estrema cautela e prudenza perché per decenni era stato un dossier intoccabile, non realizzabile, in cui gli Stati membri avevano sempre manifestato a parole grandi entusiasmi e nella pratica grande freddezza. Ricordo molto bene che quando abbiamo presentato la Strategia globale tutti consigliavano di andare molto cauti sul tema dell’autonomia strategica, della difesa dell’Unione europea, dei rapporti con la Nato. Invece credo che sul settore della difesa abbiamo fatto forse i più grandi passi avanti che siano mai stati fatti dall’Ue… e proprio in questi ultimi cinque anni. Di questo sono molto fiera. Avrei invece preferito che la storia dei miei cinque anni si concludesse in modo diverso sul tema dell’allargamento ai Balcani. Ho visto in questi cinque anni tutti i nostri sei partner nei Balcani fare riforme impressionanti, superare momenti di crisi politica, di sicurezza e in certi casi umanitaria. Pensiamo alla crisi dei rifugiati siriani che ha attraversato la rotta dei Balcani o momenti di tensione molto forti che sono derivati ancora dall’assenza di riconciliazione tra Kosovo e Serbia. Penso che sarebbe stato giusto concludere questi cinque anni con la decisione di avviare il processo di negoziato con la Macedonia del Nord e l’Albania. Una decisione che il Consiglio non ha preso e che ritengo sia stato un errore”.

Siamo alla vigilia della Brexit. Che Unione europea immagina senza il Regno Unito?
“Credo che come Unione europea nel mondo il nostro ruolo non cambierà molto. Per me è stato impressionante vedere, nei giorni immediatamente seguenti al referendum britannico, i nostri partner in tutto il mondo, dall’Asia alle Americhe all’Africa, domandarsi quale distribuzione di influenza ci sarebbe stata nel caso di separazione tra i ventisette Paesi che restavano nell’Ue e il Regno Unito che ne sarebbe uscito. A un certo punto, man mano che diventava chiaro come il processo di uscita della Gran Bretagna fosse più complicato e più complesso di quanto non lo fosse per l’Unione europea, ho visto un cambio di prospettiva anche nei nostri partner. Cito per tutti Narendra Modi, il primo ministro dell’India che con la Gran Bretagna ha un rapporto importante. Qualche anno fa mi disse “sappiamo molto bene che ventisette sono più di uno” e credo che questo, unito alle difficoltà politiche e istituzionali che il Regno Unito sta incontrando in questa fase di uscita dall’Unione, abbia ridimensionando molto il timore che l’uscita della Gran Bretagna avesse potuto in qualche modo mettere in discussione il ruolo globale dell’Unione. Sono certa che l’Unione continuerà ad essere, anzi diventerà ancora di più, un punto di riferimento fondamentale per il resto del mondo”.

Da parte del presidente degli Stati Uniti d’America Donald Trump continua ad esserci grande freddezza con Bruxelles, come andrà a finire?
“Mah… come andrà a finire? Con delle elezioni statunitensi, il prossimo novembre, che saranno come sempre molto interessanti e credo che in questo caso lo saranno ancora di più. Sono di fatto già iniziate e lo vediamo con le ripercussioni sulla politica estera globale e sulle relazioni con l’Unione europea e con i singoli Paesi dell’Unione. Le relazioni saranno molto diverse a seconda di come si svolgerà la campagna e di che esito avrà, questo indipendentemente da chi sarà eletto presidente. Bisognerà vedere che tipo di presidenza americana ci sarà e quindi, come diceva una canzone, credo che come andrà a finire “lo scopriremo solo vivendo”, ma solo dopo novembre 2020”

Una delle critiche che alcuni analisti hanno fatto all’Unione europea è sulla mancanza di influenza nella crisi siriana, uno dei dossier più complessi del suo mandato.
“Io sono arrivata a Bruxelles nel 2014 in un momento in cui le due crisi principali sul tavolo erano l’Ucraina da una parte e la Siria e la Libia dall’altra. Sulla Siria, concluso l’accordo sul nucleare con l’Iran, siamo riusciti insieme alle Nazioni Unite, con la creazione del gruppo internazionale di sostegno per la Siria, a mettere per la prima volta attorno al tavolo, per una discussione sul piano diplomatico e politico, non soltanto tutti gli attori internazionali, penso a Russia e Stati Uniti in primis, ma anche tutti gli attori della regione. Questo tentativo di trovare una soluzione politica alla crisi siriana mettendo insieme la Turchia, l’Iran, l’Arabia Saudita, i Paesi del Golfo e quelli dell’area, fu un tentativo che secondo me poteva andare a buon fine. Sarebbe qui molto lungo analizzare il perché non sia stato così. C’è stata una reazione sul piano militare che ha reso più difficile lo svolgimento del lavoro diplomatico. Era stato un tentativo che avrebbe potuto aiutare a trovare una soluzione di transizione democratica per la Siria, così come un lavoro sulla Costituzione. Ricordo che fu frutto di quel lavoro l’ultima risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a cui facciamo ancora riferimento nella roadmap per l’uscita dalla crisi della guerra siriana. Credo che in quel momento chi accelerò dal punto di vista militare ha avuto la responsabilità di rendere più difficile quel percorso. Dopodiché, dopo quella svolta per cui la parola passò più alle armi sul terreno che alla diplomazia in sé, per l’Unione europea diventò scontato continuare a giocare un ruolo che non fosse militare. Dico questo non perché non avessimo una presenza, una capacità militare – perché l’Unione europea è presente con 16 operazioni, missioni militari e civili in giro per il mondo – ma per il fatto che abbiamo scelto sempre e coerentemente di non giocare la carta militare sul teatro siriano. Abbiamo sempre insistito con le Nazioni Unite, e credo giustamente, sul fatto che la soluzione dovesse essere politica e inclusiva per tutti gli attori, in Siria, nella regione e a livello internazionale. Dal momento in cui la dinamica è divenuta soprattutto militare, abbiamo cominciato a esercitare un ruolo assumendo la guida del lavoro diplomatico e umanitario. Abbiamo convocato le tre conferenze internazionali sulla Siria a Bruxelles e a New York, copresiedute da Nazioni Unite e Unione europea, tenendo vivo il filone del lavoro diplomatico, ma soprattutto continuando a coinvolgere e a mobilitare le risorse umanitarie che sono indispensabili. Non dimentichiamo che senza di quelle non soltanto ci sarebbero state nuove massicce crisi di rifugiati, ma anche un numero di morti più elevato. Siamo riusciti in qualche modo a contenere questo grazie alla quantità di risorse e di aiuti umanitari che l’Unione europea è riuscita a mobilitare”.

Forse l’Iran è stato il dossier in cui è stata maggiormente coinvolta. Come vede la situazione della Repubblica islamica? Sarà un anno importante per il Paese, con le elezioni parlamentari. C’è chi prevede il successo dei conservatori più radicali, con il presidente Hassan Rohani che potrebbe pagare le difficoltà della popolazione iraniana esasperata dalle sanzioni. Che idea si è fatta?

Mogherini - Borrell
Federica Mogheri con il suo successore, lo spagnolo Josep Borrell

“L’Iran è un Paese complesso che si presta poco a semplificazioni, ha una dinamica sociale, economica e politica estremamente articolata. Sicuramente la svolta dell’Amministrazione americana con l’uscita dall’accordo sul nucleare ha avuto un impatto anche sulle dinamiche economiche e politiche del Paese. Nell’immediatezza di questo annuncio, mi sarei aspettata, temendolo, una fase di deterioramento dell’accordo nucleare ancora più acuta e accelerata. Siamo riusciti per qualche anno a mantenere l’accordo in vigore, ma negli ultimi mesi questo lavoro è diventato sempre più difficile. C’è poi da dire che per l’Unione europea è sempre rimasto fondamentale, e mai diventato secondario, l’aspetto dell’attenzione ai diritti umani. Ci siamo sempre continuati ad occupare in modo molto evidente ed esplicito della questione, che in questo periodo sta diventando ancora più seria. Il punto è che il circolo virtuoso che l’accordo sul nucleare avrebbe potuto innescare, come inizialmente aveva cominciato a fare, è venuto meno con la sua interruzione. La regressione sull’implementazione, sulla messa in opera dell’accordo sul nucleare da diverse parti, a cominciare dagli accordi, dalla possibilità di fare commercio con l’Iran, o investimenti nel Paese, rischia di innescare, invece che un circolo virtuoso, un circolo vizioso che può portare a un inasprimento delle posizioni politiche e delle condizioni socioeconomiche. Lo stiamo anche vedendo nelle dinamiche di controllo e di repressione nel Paese che sono effettivamente inaccettabili. Temo che nei prossimi mesi, se non ci sarà una capacità della comunità internazionale di mantenere un quadro multilaterale e di messa in opera dell’apertura che quell’accordo sul nucleare aveva fatto intravedere, la traiettoria sia quasi inevitabile e purtroppo non positiva.

I Paesi di Visegrád in che misura possono rappresentare un problema per il futuro dell’Unione europea? Penso all’immigrazione, ai diritti umani, alla democrazia.
“Sul versante della politica estera non sono stati un problema per l’Ue finora e non credo che possano esserlo in futuro. Ho visto in questi cinque anni una politica estera europea a volte descritta come priva di unità, ma invece nella sostanza molto più unita di quanto non sembrasse. Quello di cui temo di più per lo stato dell’Unione è interno all’Unione stessa. È il fatto che si possa affermare un’idea di Unione europea incentrata su interessi nazionali particolari, che facciano perdere di vista il punto che esiste un interesse comune superiore fondamentale, direi quasi propedeutico, a servire efficacemente gli interessi nazionali. Questo è quello che a me preoccupa e vale per i Paesi di Visegrád, ma anche per altri Paesi, che rischiano di assistere sempre più al proprio interno all’affermarsi di una narrazione di un’Ue come altro da sé. Questa è una cosa che mi ha sempre molto colpito. Anche in Italia lo si è fatto spesso e lo si fa tuttora: dipingere l’Unione europea come altro da noi, come se in una famiglia i singoli membri si riferissero alla famiglia come qualcosa di esterno. La famiglia è ciò che i membri della famiglia stessa ne fanno, decidono di farne con le loro relazioni e con quanto investono nello stare insieme. È esattamente la stessa cosa nella nostra Unione. Questo senso di distacco negli stati membri con il progetto comune dell’Unione è quello che mi preoccupa di più. Questo affermarsi della contrapposizione allo stare insieme, credo sia una questione non soltanto politica, ma culturale. È insomma come se fosse diventato più facile e quasi naturale definire la propria identità in contrapposizione a quella degli altri piuttosto che in congiunzione a quella degli altri”.

Un’ultima domanda, c’è qualcosa da cambiare in questa Unione per renderla più vicina ai desideri degli individui?
“Mi ha sempre colpito una cosa in questi anni, vedendo tutti i dati delle relazioni statistiche: la fiducia dei cittadini europei nell’Unione europea non è altissima, ma è più alta di quella che i cittadini hanno nelle istituzioni nazionali. Questo è un dato interessante perché ci dice che la crisi non è una crisi di fiducia nell’Europa, ma una crisi di fiducia nelle istituzioni indipendentemente dal livello a cui si guarda. Anzi c’è a volte un elemento di fiducia superiore nel livello europeo, piuttosto che in quello nazionale. Varia da Paese a Paese ovviamente, ma nella media c’è un livello, c’è stato in questi anni, un livello di fiducia superiore nell’Unione europea che non nei governi nazionali. Credo ci sia bisogno di una riflessione complessiva non tanto sulle istituzioni europee, ma sulle istituzioni in quanto tali. Come si rende per esempio trasparente e efficace al tempo stesso, in questi tempi estremamente veloci e connessi, la gestione della cosa pubblica? Come pensiamo oggi alla rappresentazione della cittadinanza e della partecipazione? Non si tratta di un tema specifico dell’Europa o dell’Unione europea, ma un tema che credo attraversi tutto il mondo a diversi livelli, dal locale al grande sistema delle Nazioni unite. È necessaria una riflessione su come si possa riuscire a rapportarsi con questa grande voglia e bisogno di partecipazione, di assunzione di responsabilità che si vede nel cittadino globale. Pensiamo alle grandi manifestazioni sul clima, come si rende questo nuovo cittadino globale partecipe di un sistema istituzionale che funzioni a tutti i livelli? Questa penso sia la riflessione da fare. Singole scelte non credo possano risolvere magicamente uno stato di disaffezione e interrogazione complessiva su come funziona la gestione della cosa pubblica”.


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