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Roberto Ruffilli e il primato irrisolto della governabilità - dal blog sull'Huffington Post di David Sassoli

16 Aprile 2018

La memoria sembra essere il contrappeso della velocità della vita vissuta. Anniversari si affollano, trattengono un passato che ci sfugge ma poi di rimbalzo presentano conti ancora da saldare. Roberto Ruffilli venne ucciso trent'anni fa, dieci anni dopo Aldo Moro.

I killer delle brigate rosse entrarono in azione in due momenti della vita del paese in cui si tentava di offrire una risposta alla crisi del sistema. In tutti e due i casi la riflessione non si riferiva soltanto alla soluzione da adottare per formare un governo, pur importante, ma alla risposta da offrire alla crisi del sistema.

Lo Stato non riusciva più a essere al centro della "decisione sovrana", e nuovi soggetti imponevano un costante conflitto una "democrazia pluralista" e una "democrazia plebiscitaria". Era il 1979 quando Ruffilli pubblica per Il Mulino, "Crisi dello stato e storiografia contemporanea", il suo lavoro più acuto. I temi sono ancor oggi di stretta attualità. Gli intellettuali, d'altronde, servono a costringere a guardare la luna.

La riflessione di Ruffilli, però, non resta in un cassetto. La Dc di De Mita coinvolge il giovane professore e altri intellettuali -Pietro Scoppola, Niccolò Lipari, Romano Prodi, Leopoldo Elia- nella definizione di un programma che cerchi di dare a quel partito, ancora con molto consenso ma con crescenti spinte degenerative e privo di una visione d'insieme, a ritrovare l'orizzonte della sua proposta.

Ruffilli si concentra in modo molto concreto sugli elementi che possono riconciliare la persona con l'ordinamento della sua comunità, in un sistema bloccato come quello italiano in cui i segni di forte disaffezione era già presenti nell'opinione pubblica alla fine degli anni Settanta. Non c'era più Aldo Moro e la classe politica non se ne accorgeva.

O si fa la rivoluzione, diceva Ruffilli, o si fanno le riforme. Serviva riallacciare i fili di un discorso interrotto se non si voleva scommettere sulla crisi del sistema. Da dove ripartire? Ruffilli ricomincia dalla Costituzione italiana e si concentra sugli elementi che possono "portare a uno stato di accettabile coerenza", come avrebbe detto il professor Vittorio Bachelet, gli istituti vecchi e nuovi.

I professori cattolici hanno sempre dato un contributo originale a questo sforzo di declinare gli interessi di giustizia, libertà e uguaglianza. Non parliamo di cose astratte. La crisi dello stato impone di rimettere al centro la persona e i suoi diritti. E la Costituzione consente di ripartire dal primato della persona in relazione all'ordinamento. La crisi dello stato moderno potrà trovare così equilibri nuovi -e qui Ruffilli citava spesso Gramsci- in un paese come l'Italia che si presenta fragile per lo scarso consenso conquistato dai tempi della sua Unità.

"Il cittadino come arbitro", il suo libro più famoso, non nasce a caso. Riassume una riflessione partita da lontano e arriva alla scelta di riforme che consentano di riconsegnare al cittadino quel potere che dagli anni della Costituente gli era stato sottratto, per ragioni storiche, politiche e geopolitiche come la Guerra fredda.

Ruffilli individua un percorso audace: spostare la partecipazione dai partiti al governo. Con lui si rafforza l'idea del primato della governabilità. I partiti devono dire prima delle elezioni con chi si alleano. E far scegliere il governo è un modo per riconciliare i cittadini alla politica, recuperare la disaffezione, superare la partitocrazia, invitare alla partecipazione, garantire alternanza a un sistema bloccato, garantire stabilità. Ce n'è abbastanza per sfidare partiti e classi dirigenti, molto interessate all'epoca più a acconciarsi che a trovare risposte per proteggere un sistema democratico alquanto sofferente.

Ed è così che la questione elettorale entra fra gli interessi di Ruffilli e la sua proposta è ancora una volta di stretta attualità: passare da una "democrazia possibile", come era stata garantita fino a allora, al "governo possibile". Senza una visione abbiamo visto di recente cosa significhi intervenire sulla legge elettorale.

Per Ruffilli, comunque, non si deve rispondere con soluzioni semplificate -presidenzialismo, semipresidenzialismo- a questioni complesse. Serve garantire il massimo di pluralismo e consentire al tempo stesso al cittadino di scegliere il governo. Perché è il governo che deve essere scelto, e perché la scelta del governo consente di trasformare i partiti, aggiungere partecipazione, ammodernare la macchina amministrativa, riconciliare il cittadino con lo stato.

Non si tratta solo di belle parole. Stiamo parlando dei mali di cui soffre il paese in questo momento, in cui sentiamo quanto sia necessario e urgente investire sulla responsabilità di tutti i soggetti che partecipano alla vita democratica.

Responsabilità e pluralismo sono la costante delle proposte di riforma avanzate da Roberto Ruffilli -a partire dall'impianto che portò alla legge sull'ordinamento regionale di cui era uno specialista- seguendo una linea ben presente nella migliore tradizione cattolico democratica. Abbiamo citato Bachelet, potremmo citare Dossetti, Lazzati, Ardigò, Elia, Moro. Questa è la foto di famiglia di Ruffilli.

So bene che ogni passaggio qui accennato dovrebbe essere approfondito e anche discusso. Ci tenevo però a dare rilievo a un'affermazione che in questi 30 anni mi è sempre tornata in mente ricordando Ruffilli. È quella con cui i suoi assassini lo definiscono nel comunicato di rivendicazione dell'omicidio. E cioè di aver ucciso un "vero e proprio cervello politico".

Non so come i brigatisti condannati per l'omicidio potessero, nel loro delirio e nella loro povertà intellettuale, percepire il valore della sua riflessione. La storia non si fa con i "se", ma in questo caso sono concessi retropensieri.

Un omicidio, come era già accaduto con Moro dieci anni prima in modi e forme diverse, può certo limitarsi a colpire un uomo, ma può anche fermare un processo politico. Ruffilli non era una star, tanto meno un leader e non sarebbe entrato nel governo De Mita che in quei giorni si andava formando. Era concentrato su come migliorare la vita del paese, rafforzare il sistema democratico, rendere più vicini i cittadini allo stato. Chi lo ha ucciso ha scommesso sulla crisi della prima Repubblica che di lì a pochi anni sarebbe esplosa. Il paese era fragile e trent'anni dopo si ritrova a fare i conti con se stesso. Quando venne ammazzato Roberto Ruffilli aveva 51 anni. 

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