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La Primavera Araba non diventi Autunno - L'analisi di Lapo Pistelli

14 Settembre 2012


Prima li abbiamo temuti, barattando la stabilità delle loro autocrazie con la protezione dalle nostre paure del radicalismo e dell’immigrazione. Poi li abbiamo applauditi quando facevano la rivoluzione non violenta con face book e i colori della bandiera sulle guance. Nel frattempo cancellavamo le vacanze in Tunisia e sul Mar Rosso, perché fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio. Poi ci siamo concentrati su di noi, sul panico europeo e sulle montagne russe dell’euro e abbiamo dimenticato che le transizioni alla democrazie sono lente e difficili. E più dure ancora, se la liberazione dai tiranni è stata lunga e violenta. Oggi, i media illuminano ancora il mondo arabo, dopo il tragico attentato di Bengasi e gli assalti scomposti ad alcune ambasciate americane. I realisti dicono “ve l’avevamo detto”: in fondo le élites arabe sono sempre state più filo-occidentali delle masse arabe, pronte invece ad infiammarsi dopo ogni stupida provocazione.

Io credo, invece, che l’assalto vigliacco a Christopher Stevens – un uomo innamorato della Libia, della causa araba e della liberazione di Bengasi, perciò un nemico dei fanatici – non cambia il corso degli eventi ma ribadisce, semmai, che gli estremisti, i salafiti cercano di recuperare con azioni e gesti “antichi” un terreno largamente perduto nelle elezioni e nei numeri grandi della società araba di oggi. Organizzare duemila persone contro un’ambasciata non è impresa difficilissima. Trarne giudizi definitivi è invece avventato. Come se le provocazioni degli anarchici e dei black bloc nei meeting internazionali in Europa avessero fatto concludere che l’Occidente tramontava e le democrazie erano sconfitte.

L’amministrazione americana dovrà ottenere rapidamente giustizia, a sessanta giorni dalle elezioni, contro sfidanti, inesperti in politica estera ma pronti a mostrare vocalmente i muscoli. Il nuovo governo libico dovrà dare prova di governo del territorio ai Paesi che l’hanno aiutato a liberarsi di Gheddafi. In Egitto e altrove, la Fratellanza dovrà attrezzarsi a regolare i conti, con meno ambiguità possibile, con i gruppi salafiti e la galassia jihadista che spera di sopravvivere intorbidando le acque della transizione.

Meno che mai, questo è il tempo per aprire l’assurdo fronte militare fra Israele e Iran. Le distinzioni fra persiani e arabi, sciiti e sunniti, in una circostanza del genere, cadrebbero di colpo e le piazze arabe sarebbero nella condizione di perfetta manipolabilità contro Israele e i suoi amici internazionali, Stati Uniti in prima fila.

Servono dunque nervi saldi e gesti forti ma semplici, per non fare deragliare il treno della primavera araba, per non fare dirottare le transizioni da un manipolo di assassini, già sconfitti dalle rivoluzioni del 2011.

E serve che il sistema dell’informazione riprenda l’abitudine di seguire costantemente anche gli enormi progressi compiuti da molti Paesi, rinunciando a coprire solamente le stragi siriane e gli episodi sporadici di violenza che si svolgono altrove. La primavera rischia altrimenti di divenire un autunno, innanzitutto nei nostri cuori e nelle speranze, tuttora fondate e legittime, di chi ha visto in questa pagina di storia la possibilità di un cambiamento strategico del mondo arabo.


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